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La medicina di genere non è solo per donne o persone transgender: riguarda tutte le persone e le loro diverse esperienze di salute.
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A cura di Dott.a Giorgia Esposito, MSc in Medicina di Genere
Le parole sono importanti.
Formano i nostri pensieri e, di conseguenza, le nostre azioni.
Nell’ambito di genere è importante dare peso al linguaggio e alle definizioni, per dare visibilità, per creare rassicurazione sociale tra e per le persone, per scrivere leggi che tutelino chi altrimenti non esisterebbe. Tutto quello a cui non diamo un nome, è come se non esistesse.
Il sesso non è la stessa cosa del genere
Partiamo dal capire che cosa sia il genere. Innanzitutto, il genere non è la stessa cosa del sesso biologico, che riguarda le caratteristiche fisiche e cromosomiche con cui nasciamo, e che non coincide necessariamente con il genere. Il genere, infatti, riguarda chi siamo: il nostro senso individuale di appartenenza a un determinato genere.
Ancora diversa è l’espressione di genere, cioè il modo in cui comunichiamo il nostro genere agli altri attraverso abbigliamento, comportamento, voce o gesti. Collegati a questi concetti ci sono anche gli stereotipi di genere, ossia idee preconfezionate su come “dovremmo” essere, mentre i ruoli di genere rappresentano le aspettative sociali reali legate a ciascun genere.
Inoltre, per definire quale genere, bisogna considerare che il binarismo di genere, ovvero l’idea che esistano solo due generi o femminile o maschile, contrappone alla diversità di genere.
Ma da quando si inizia a parlare di genere in medicina?
Si parte dagli anni ’60 dai medici statunitensi R. Stoller e J. Money del Johns Hopkins Hospital di Baltimora, che distinsero l’orientamento psicosessuale (gender) di una persona dal suo sesso anatomico (sex). In questo quadro, si inseriscono i movimenti femministi per la salute delle donne che, negli anni ’60 e ’70, rivendicavano il controllo sui diritti riproduttivi e denunciavano il potere della comunità medica paternalistica, che si manifestava nella negazione dell’accesso all’aborto e ai contraccettivi, nella visione giudicante e stereotipata della prostituzione e della pornografia, nella violenza di genere e negli standard dell’industria della bellezza.
I primi studi sul legame tra genere e salute
A contribuire a concettualizzare il genere come determinante delle disuguaglianze di salute, sono stati fondamentali il libro Sex, Gender & Society di Ann Oakley, che spiega come il genere determini discriminazioni sociali, e il manuale Women and their bodies del Boston Women’s Health Collective, i cui guadagni della casa editrice sono stati devoluti al collettivo femminista stesso.
Anche le conferenze mondiali sulle questioni femminili a partire dal 1975 a Città del Messico, passando da quella a Copenaghen (1980) e Nairobi (1985), fino ad arrivare alla quarta a Pechino nel 1995, hanno contribuito a portare alla luce l’uguaglianza di genere, l’empowerment delle donne all’interno della società e la neutralizzazione dell’identità sessuata. Il gender, infatti, da quel momento, si presta ad essere inteso come concetto neutro, né femminile né maschile.
Dalla patologizzazione al riconoscimento
Da quel momento si iniziò a depatologizzare tutte quelle identità di genere e sessualità non conformi a quelle cis-eterosessuali. Il sapere medico si accinge a smettere di essere l’unico deputato a parlare per tali soggettività, che fino a quel momento erano considerate casi da trattare farmacologicamente e tramite terapia psichiatrica. Dovremmo aspettare il 2014, per la prima comparsa nel manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM), della parola “disforia”, che non è più considerata una malattia da trattare (DSM-5); fino ad un momento prima, si parlava di travestitismo e omosessualità, considerate “deviazioni sessuali” e classificate tra i “disturbi sociopatici di personalità”.
L’importanza del linguaggio anche in medicina
Da ciò si comprende quanto, anche in medicina, sia fondamentale che il linguaggio si espanda, trasformi e reinventi ad ogni riga, per creare percorsi sanitari che considerino la salute a 360 gradi, senza pregiudizi.
La terminologia tecnico-scientifica non deve incentivare la creazione di gabbie e ghetti, di pregiudizi e distanze, ma deve essere guida verso un’apertura di visioni e saperi, di scambio e accoglienza; non è vero che non può essere modificata, al contrario, la sua immobilità non giova né alla società né alla scienza stessa, e potrebbe diventare fortemente pericolosa.
Quindi cos’è davvero la medicina di genere e a chi interessa?
La medicina di genere (MdG) o, meglio, la medicina genere-specifica è definita dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) come lo studio dell’influenza delle differenze biologiche (definite dal sesso) e socio-economiche e culturali (definite dal genere) sullo stato di salute e di malattia di ogni persona.
Si tratta, dunque, di una medicina che riguarda tutte e tutti: non una “medicina delle donne” o “delle persone transgender”, ma una medicina delle persone, capace di riconoscere e valorizzare la diversità come elemento fondamentale di cura e di equità.
L’approccio intersezionale
L’approccio intersezionale offre una chiave di lettura più etica e realistica: le disuguaglianze non sono il risultato solo delle caratteristiche personali, ma dell’intreccio tra oppressioni sistemiche, dal sessismo al razzismo, dal classismo alla transfobia.
Nonostante siano ben note le differenze tra uomini e donne in termini di composizione corporea, genetica, metabolismo, stato ormonale e sistema immunitario, le donne vengono ancora oggi curate con protocolli e farmaci pensati per gli uomini, senza considerare le identità che vanno oltre il binarismo di genere.
Una medicina che cambia con la società
Allo stesso modo del linguaggio, anche la medicina è uno strumento per vivere meglio in comunità e come tale deve sapersi espandere, trasformare e reinventare costantemente. La scienza non si impoverisce con il cambiamento, ma con la stagnazione; integrare gli studi di genere nella medicina significa renderla più sana, equa e attenta all’individualità.
Il valore del femminile nella sanità
Il “femminile” nella sanità — inteso come una maggiore considerazione del sesso femminile nella ricerca e nella pratica clinica, e non come l’imposizione di standard femminili o la riduzione alla sola esperienza della donna — diventa così un atto di riconoscimento e rappresentanza per tutte le persone che, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, identità o espressione di genere, hanno diritto a essere incluse negli studi scientifici e nei percorsi di cura.
La medicina di genere è, dunque, la medicina di chi si identifica come maschio, come femmina o al di fuori di queste categorie.
Verso una medicina più inclusiva
Scienza e sanità pubblica hanno una responsabilità sociale nell’educazione alla salute; per questo devono formarsi, aprirsi a nuovi punti di vista, meno stigmatizzanti e patologizzanti, e orientare la cultura della cura verso un modello sempre più inclusivo, accogliente e rispettoso delle differenze.